mercoledì 29 gennaio 2014

Cibo con sesso senza senso


Molto è stato scritto, qualcosa ho letto, sul legame stretto che vi è tra cibo, sessualità e sensualità.
Lungi da me l’idea di salire in cattedra trattando l’argomento in questione da angolazioni psico-analitiche o psico-logiche, non ho le carte in regola e sufficiente buon senso per non farlo.
Si tratta di mera e personale osservazione.
L’oggetto delle mie esplorazioni, in merito alle gestualità legate agli atti compiuti nutrendosi, è il sesso maschile, perché quello che più m’incuriosisce e, chiaramente, più solletica la mia fantasia.
Potrà sembrare esagerato, ma ho visto quasi dilaniare il cibo, uomini che sgarbatamente strappano con i denti brandelli di companatico e tocchi di pane per poi ingurgitarlo.
Malcapitati bocconi giù veloci direttamente in gola per poi finire con un tonfo nello stomaco.
Uno “splash” nei succhi gastrici!


Avrei voluto urlare loro: “ Ehi, i denti sono sprovvisti di papille gustative, ti sei giocato un passaggio importante!” 






Ci son, poi, quelli che tengono la forchetta con le dita quasi a toccar i quattro rebbi… una visione terribile.
Temono la forchetta stessa, come se lei potesse sottrarre loro il cibo dalla stoviglia.
Questa tipologia di maschio porta la mano libera leggermente sopra il piatto, come a creare una cinta di protezione; proteggono, probabilmente, il cibo dall'invasore.
Mi è capitato spesso di notare alcuni uomini che, invece, fanno fare allo sventurato boccone delle minuscole giravolte in bocca.
Questi, dopo aver indotto il companatico o il povero maccherone alle acrobazie, assumono le sembianze di serpi, dalla bocca sottile.
Immagino la loro lingua “prensile” ma non tattile né duttile.
Fantastico quindi sui primi: coloro i quali dilaniano il cibo, immaginandoli cimentarsi nell'arte del corteggiamento; saltiamo tutti i Con-Vene-Voli, sicuramente per questi “omini de panza” non servono a nulla.
Saltati i convenevoli, li vedo balzare sulla preda, preoccupandosi solo ed esclusivamente del proprio piacere.
Nella mia fantasia, gli stessi e non a caso, non useranno mai alcun nome… ricordare? Perché mai!
Non posseggono “papille gustative” e quindi un “cibo” vale l’altro. Solo uno “splash” o uno “splot”.
Vagheggio, allora, sui secondi, parafrasando volgarmente una frase del Faber dalla sua meravigliosa Amico Fragile, quelli che: “Dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una forchetta.” O porchetta che dir si voglia.
Fantasticare su questi “signori” è divertente.
Sì, lo è perché li immagino intenti a fissar paletti di divieti assoluti, madidi di sudore con fattezze goffe e un po’ négligé.
Questo non si dice, quello non si fa, qui tu non puoi entrare, tieni le distanze.
Essi sono i guerrieri senza spada, avidi, aridi e gretti, incapaci di darsi.
Elementi che tendono a lamentare la di loro non accettazione da parte del mondo femminile.
Solitamente son uomini che amano parlarsi addosso, si com-piacciono. Un po’ tristi, tendenzialmente miseri.
A questo punto la mia fantasia passa in rassegna il terzo tipo: l’uomo serpe.
Bocca sottile e lingua biforcuta, il tipo che non accarezza, non bacia non è tattile; è meccanico.
Se chiama la preda per nome, nell'atto della copula, lo fa solo scandendo lettera per lettera così da non sbagliarsi.
E’ un uomo che si crede furbo, è convinto di possedere la capacità di ipnotizzare usando la sua mente, è convinto di gabbare sempre tutti e tutto.
Lo immagino, solo apparentemente, calmo e pacato.
Ho descritto, qui, solo mie personali sensazioni soggette quindi a opinabilità, provate osservando parecchi uomini nei bar o nei ristoranti mentre pranzavano, mentre portavano il cibo alla bocca.
                                         
                                                                          Noi donne?
                                                            Siamo perfette, ovviamente!





Fonti immagini:
http://langolodililith.blogspot.it/p/blog-page_19.html
http://it.paperblog.com/le-voluttuose-morbide-e-sensuali-donne-di-fernando-botero-1171195/

martedì 21 gennaio 2014

PORTE MAI CHIUSE

Roberto Pinetti





Sei piccola e graziosa come sempre. Il suono della tua voce mi accarezza fresco e tranquillo, ruscello di montagna, in questi giorni torridi. Mi disseto ascoltandoti, mentre parliamo di banalità. Accorti nel non dire nulla. Nulla che tradisca l’ombra del nostro passato, dell’intimità senza difese che abbiamo condiviso: che mi hai regalato, che ti ho regalato (anche se poco e male - ora penso -) solo pochi anni fa. Non riesco. Non riesco ancora a lasciarti andare. Eppure parliamo, come due conoscenti qualsiasi, delle tue vacanze, delle mie, quelle che non ho fatto. E intanto sorridi, e mi guardi. E io, come un ladro, ti rubo lo sguardo, mi fisso sui tuoi occhi, che non si sottraggono. Allora una parte di me ti ringrazia, di nuovo, di quel piccolo, incommensurabile dono. Ti ringrazia per quegli occhi che non mi sfuggono, forse ignari del bisogno vorace che illumina i miei. Intanto, le tue piccole mani e le braccia raccolgono e depongono libri con la semplicità d’un fare sapiente. Ogni libro al suo posto, mentre accenni a giornate di mare intercalate da quelle in montagna, nella casa del tuo compagno di ora, di dopo di me. E sento ancora un’eco di dolore, una vibrazione di pelle ferita, la cicatrice in cui il variare del tempo atmosferico, ogni tanto, infila il suo gelido dito rovente. Sei piccola e straordinariamente graziosa. Perfetta miniatura di dea dell’amore perduto.

Ora, come spesso anche tu puoi vedere, passo dal negozio di libri in cui lavori e nel quale ti ho conosciuta, con la patetica continuità di chi non può farne a meno. E mimetizzo il mio scopo indicibile fra acquisti di libri e ricerche più o meno sensate. Sei piccola e soavemente graziosa anche mentre incido un saluto nell’aria condizionata della libreria e scendo le scale, cercando di non accorgermi del senso di vuoto e dolore che, ogni volta, mi costa lasciarti. Ma ho ancora i tuoi occhi nei miei e stenta ad evaporare il fremito che m’accompagna, nonostante il calore della piazza assolata. Parlavi con me solo un attimo fa. Ti ho salutata fingendo una serenità mai sentita. Ho misurato le parole con la consumata esperienza di chi ha imparato a spegnere ogni speranza di fronte al proprio desiderio. Di chi crede da tempo che un perverso incantesimo gli toglierà qualunque cosa egli veramente desideri.

Ricordo con un pò d’imbarazzo il mio pianto per l’uccellino caduto dal nido e rimasto senza fiato, nonostante il prodigarmi a nutrirlo. Presagio di doloroso tramonto, all’alba del nostro incontro. Ricordo d’aver pensato.. d’aver temuto.. d’avere sentito che quella non era un’immagine assurda, il tragico epilogo d’un caso insensato. Ma il segno evidente di ciò che s’apprestava a succedere. E, in fondo, la piccola, cara, Mara, non appariva dissimile ad un uccellino caduto dal nido, ai miei occhi più vecchi dei suoi di quindici primavere, e autunni, ed inverni.. E netta, e terribile, si stagliava l’analogia del mio inutile tentativo di sfamare e far vivere quel piccolo volatile inerme, con la speranza, un pò timida e goffa, di nutrire quella relazione sproporzionata, quell’amore nato sghembo come il passo zoppo di due gambe asimmetriche. Fra leggerezze per me insostenibili e profondità in cui Mara annaspava senza scampo, fra le mie pesantezze e le sue frivolezze, fra il mio senso del dolore e la sua ricerca della felicità, si formavano paludi d’incomprensione in cui ogni passo era difficile e poteva essere l’ultimo. Sapevo bene che c’era un modo più facile. Facile, per me, come essere un altro uomo! Sapevo già troppe cose e tante di queste mi mordevano la coscienza come una muta di cani ad azzannarmi i polpacci, senza darmi tregua. Allora non mi pare strano che Mara trovasse un ascolto più affine. Un giovane più simile a lei, almeno per gioventù, che forse sentiva e capiva ciò che "si doveva capire" e non altro. Che la consolava per le ferite inferteci nelle reciproche incomprensioni.
 E, forse, le dava risposte più ovvie, più attente alle sue (legittime) attese, piuttosto che tendere sempre lo sguardo nell’oltre come io già facevo, non sapendo fare altrimenti.






lunedì 20 gennaio 2014

Effetti collaterali

















A causa di un reiterato uso di organi genitali da parte di taluni individui per ragionare, si sono riscontrati gravi effetti collaterali ogniqualvolta, gli stessi, per mingere si servono del cervello.








venerdì 17 gennaio 2014

Gunkanjima, la nave fantasma a largo delle coste del Giappone

emmegrafia



Gunkanjiima, l'isola della nave da guerra, l'isola fantasma, l'isola di cemento; sono i nomi con cui è conosciuta l'isola di Hashima nella prefettura di Nagasaghi. 
Negli anni '50, quando era un'isola mineraria di proprietà della Mitsubishi, raggiunse il record mondiale di densità di popolazione con 83500 abitanti per Km quadrato (circa 40 volte la densità attuale di Roma).
 Fu poi completamente abbandonata nel 1974 con la chiusura delle miniere. 
Tornata di recente alla ribalta come "location" dell'ennesimo 007, ha avuto l'onore di essere stata censita da Google Streetview 



Saiga Yuji (Hyogo - Giappone -1951) fotografò nel 1974 gli ultimi giorni dell'isola.


martedì 14 gennaio 2014

L'inquisitore di J. L. Borges

Potevo essere martire.
 Sono stato carnefice.
 Purificai le anime col fuoco.
 Per salvare la mia, cercai il cilicio, la preghiera, le lacrime e il giogo. 
Gli autodafé mi fecero vedere ciò che in parole avevo sentenziato.
 Le carni afflitte, i miserabili roghi, il fetore, le grida, l’agonia.
 Sono morto.

 Ho scordato i tristi gemiti, ma so che questo vile pentimento è un crimine che sommo all'altro crimine e che il vento del tempo, più tenace d’ogni peccato e d’ogni contrizione, travolgerà entrambi. 

Li ho sprecati.




Fonte immagine:
http://fotos.sapo.pt/l_soares/fotos/?uid=jtILAwqi3THMUzUFHlvn


martedì 7 gennaio 2014

IL MIO DISCORSO PER L'ULTIMO DELL'ANNO

Roberto Pinetti



Alcuni sono convinti che questo periodo dell'umanità sia particolarmente confuso, dal punto di vista comunicativo, per via delle più recenti tecnologie. Mi riferisco all'uso dei vari "dispositivi mobili".
 È vero, basta poco per notare quante persone privilegino sempre più smacchinare sul proprio smartphone anche in presenza di propri simili in carne ed ossa.Qualche intellettuale ha scritto parole dense di rammarico per questa deriva della comunicazione interpersonale. Non mi soffermerò sulla triste condizione di chi si consideri un "intellettuale" senza avere colto il senso di questa parola.
 Mi vorrei occupare, invece, della verità essenziale che troppo spesso viene elusa quando ci si lamenta della perdita del contatto umano più "autentico". Noi umani ci comportiamo così da moltissimi secoli. Mi riferisco alla cultura dominante su questo pianeta. Noi ripetiamo pensieri già fatti, il più delle volte banali e insignificanti ma molto spesso sopravvalutati. I pensieri sono solo parole che, introdotte nel nostro cervello, continuano a ripetersi senza produrre alcun suono. E noi tutti viviamo sotto l'incantesimo maligno che ci vede convinti di essere "liberi" perché pensanti. Eppure sono pochi gli esseri umani capaci di usare il pensiero in modo autentico e creativo. Sono i grandi filosofi, poeti, artisti, scienziati, inventori.. E anche loro, con ogni probabilità, lo hanno fatto solo in particolari, speciali, momenti. E certo, molti fra loro hanno pagato prezzi altissimi per donare al mondo il frutto del proprio talento. Ma cosa rende diverso questo periodo da quello in cui erano principalmente i notiziari alla tv a renderci partecipi e omologhi. E cosa rende meno stereotipato e inutile il pensiero letto sui fogli dei quotidiani. Viviamo nell'illusione della "informazione". Cerchiamo disperatamente che qualcuno, sempre "qualcun altro", ci dica come vanno le cose. Perché abbiamo paura della verità. La realtà che crediamo di conoscere non è la Verità. È soltanto una convenzione nella quale tentiamo di placare le nostre ansie. Ma solo apparentemente, in quanto, lo sappiamo bene, l'ansia è forse la nostra più assidua compagna in questo frammento di eternità.
Il pensiero è un'invenzione umana proprio come la stampa o gli smartphone. E proprio come ogni invenzione umana deriva dal genio di qualche individuo specifico e, poi, si irradia nel mondo, ad uso di un gran numero di persone le quali, ben lontane dall'avere una minima idea di come "funzioni", la usano, spesso in modo banale quando non distruttivo. Allora c'è solo un modo per non rimanere imprigionati nella banalità dell'informazione che ci circonda e ci "forma" (in-formare). La soluzione è "essere". Prendersi la responsabilità quotidiana di ciò che facciamo e non facciamo. Ci può sembrare bello e utile provare emozioni, dolore, pietà, indignazione, per cose che accadono anche molto lontano da noi. Possiamo credere sia utile sapere di "chi ha fatto cosa" nella nostra città o cosa (qualcuno racconta che) non va nella gestione comunale. Ma la soluzione sta nel guardare senza aver paura di vedere. Se inizio a "vedere" tutto cambia perché non posso più mentire a me stesso. Non posso più dire: «ci penserà qualcun altro» o «ci deve essere qualcuno preposto a questo incarico». 
Se "vedo", quel qualcuno sono io. Non dovrò più lamentarmi. Perché si lamenta chi aspetta da altri le soluzioni. Si lamenta chi demanda e non si assume la propria responsabilità. Se, per un istante, ci accorgiamo di essere sotto l'egida di un incantesimo che ci impedisce di riconoscere come omologata e inutile gran parte dei nostri pensieri, allora possiamo liberarci. Possiamo assaporare il gusto della responsabilità, che è la nostra fonte primaria di libertà. 
Possiamo uscire dalle trappole dei luoghi comuni, delle parole dette per dire, dei suoni inutili che rimbombano nella nostra testa come se avessero un vita propria e.. cominciare a Vivere.







Roberto Pinetti, ricercatore esistenziale.

Ho conosciuto Roberto molti anni fa grazie a un social network: My Space.
Sì, se non fosse stato per la tecnologia, oggi, probabilmente, non avrei un caro amico.
Chi è Roberto?
Roberto è uno psicologo, è Uomo che conosce molto bene la mente umana, anche se, a parer mio, non è sufficiente la mera conoscenza per essere un bravo psicologo e lui, infatti, ci mette tanto di suo; ci mette il cuore, la sua fertile mente esente da volgare saccenteria.
Robi è un bravo pittore, un collega capace, mai approssimativo.
Lui non “gioca a fare l’artista”, lui ricerca, scava, seziona; egli non si accontenta mai.
Condivido appieno ogni sua considerazione rispetto al mondo dell’arte contemporanea, ai personaggi di varia natura che orbitano attorno a noi “portatori Sani di pennelli imbibiti di colore”.





lunedì 6 gennaio 2014

Alcune disordinate geometrie interiori






emmegrafia







"Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate"


Francesca Woodman (Denver, 3 aprile 1958 – New York, 19 gennaio 1981) morì suicida nello stesso mese della sua unica mostra dal titolo "Alcune disordinate geometrie interiori"


Io fuggo, tu fuggi? Io mi scuso, tu ti scusi?

Fuggire, in senso figurato, dalle situazioni scomode, antipatiche.
Qualcuno mi chiama “saponetta” perché, pare, io tenda a “scivolare via” di tanto in tanto.
Nei giorni passati ho avuto modo di analizzare questo mio comportamento, azione che certamente non riguarda solo me.
Fuggire da quelle piccole circostanze della vita; piccole, forse, solo apparentemente.




La mia analisi è partita dal momento in cui mi sono resa conto che evitavo accuratamente un grosso albero di natale posto nell'atrio della stazione ferroviaria di Porta Nuova a Torino.
Abete sintetico sul quale è consuetudine apporre bigliettini o letterine con desideri vari.
Un paio di anni fa, attendendo una persona a me cara con la quale sarei partita per Venezia, decisi di scriverne uno anch'io.
Misi su un foglietto del mio Moleskine ciò che desideravo più di ogni altra cosa al mondo, scrissi due righe con tutto l’amore che avevo, lo puntai a un ramo un po’di nascosto e tornai ad attendere la persona con la quale avevo appuntamento.
In seguito a quella piccola vacanza passai, com'è mia consuetudine, davanti al grosso albero, beh… l’angolo in cui avevo appuntato il mio “desiderio” era andato a fuoco, bruciato  probabilmente a causa di un corto circuito  delle lucine natalizie.
Mi turbò l’immagine immaginaria di quel brandello di carta così delicato, così sussurrato e poi distrutto, polverizzato come pochissimi altri insieme al mio.
 Fino allo scorso anno, ancora, mi fermavo a leggerne qualcuno, erano perlopiù desideri legati al ritrovamento di un posto di lavoro; diritto e non desiderio sancito dalla nostra carta costituzionale:
                                                                              
                                                Art.4.
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
                         (http://www.quirinale.it/qrnw/statico/costituzione/costituzione.htm)


Ero pervasa da sensazioni contrastanti; provavo rabbia, una rabbia che nasceva dallo stomaco e provavo tenerezza, tristezza, comprensione, compassione.
Mi domandavo: perché? Perché ci siamo ridotti così, mi sentivo responsabile nei confronti di quelle generazioni cui abbiamo lasciato che togliessero la speranza e forse i sogni, pensavo a quelli della mia generazione che devono fare i conti con la paura di un quotidiano sempre più precario.
Beh, la persona che mi chiama, di tanto in tanto, “saponetta” mi conosce molto bene; ma trattandosi di uno di quei rarissimi Uomini che hanno una mente eccelsa sempre collegata al cuore, non mi stupisce.
Sì, anche in occasione della chiusura temporanea di una stupidissima pagina Facebook, mi ha dato della sgusciante… è vero, ma per me sarebbe stato insopportabile vivere i lustrini virtuali mio malgrado.
Posso solo scusarmi e scappare via, anche se solo per il momento, in senso figurato.


Fonte immagine:
http://doubledutching.tumblr.com/post/63271647129/amospoe-so-much-better-to-travel-than-to





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