venerdì 2 settembre 2016
lunedì 22 agosto 2016
La società è malata; che muoia la società!
Sono spesso tacciata d'esser cinica, quando va bene, o, quando va male,
d'esser una vera bastarda; sarà vero, non lo so e neppure
m'interessa saperlo.
Uso
sempre meno, e sempre più con notevoli restrizioni ai più o ai meno, i famigerati social: FB in testa.
I
miei contatti sono pochi, rispetto alla media dei possessori di
profili, e di quei pochi, di tanto in tanto, ne elimino qualcuno per
mancanza d'interazione.
Non
rientra nei miei interessi possedere un “supermercato di carne
informe e virtuale”.
Se
un social non socializza mi pare perda anche quel misero scopo.
Il
lezzo di solitudine che emettono questi non luoghi spesso
m'intristisce ed è, anche, per codesto motivo che il mio accesso
diviene talvolta sporadico.
Attribuisco,
tuttavia, agli stessi alcuni meriti.
Ho
ritrovato persone delle quali avevo perso le tracce, ho riallacciato
un rapporto personale molto importante, ho conosciuto persone che
oggi mi sono care e altre che care non lo sono più.
Ho
aderito a svariate pagine musicali o d'informazione, posso sapere, e
quindi visitare, mostre e spazi di mio interesse.
Mi
è stato possibile avere contatti con curatori, critici, galleristi e
associazioni; ho ricevuto messaggi personali il cui pensiero ancora
mi commuove e molto altro.
Viviamo
un tempo strano, un tempo di transizione che ci fa paura perché non
sappiamo dove ci condurrà. Mi pare estremamente adeguato definirlo,
così come fa qualche giornalista, un tempo liquido il cui
contenitore è invisibile.
Talvolta
percepisco questa nostra società come una sorta di grande piazza
gremita da individui chiassosi, persone intente a raccontare, ognuno,
la propria fiaba.
In
questo nostro strano modo di fingere una “dignitosa”
sopravvivenza, e un ancor più falso “va tutto benissimo
(pronunciato con almeno 4 esse), non sappiamo più vergognarci.
La
vergogna è sentimento che non ci appartiene più… e si vede.
Quel
vermiglio che invade con calore le gote, quell'impulso che ci
vorrebbe sotto delle pezze nascosti al mondo intero, ecco; quella
sensazione di disagio che, dopo essersi impossessata delle guance,
pervade tutto il corpo e che si avvinghia come un polipo allo
stomaco; quel sentire noi lo abbiamo perduto.
L'assenza
pressoché totale del suddetto sentimento si ravvisa in ogni comparto
della nostra malata società.
Una
classe politica che a definirla disgustosa è farle un gran
complimento, che comunque, ci piaccia o meno, è il nostro specchio;
il nostro doppio… siamo noi.
Genitori
impazziti che, riconoscendo genialità nei propri pargoli, genialità
che vedono solo loro perché, evidentemente, si drogano pesantemente,
rompono i cabbasisi al globo intero con la loro incessante invasione:
vedere scuola, per fare un solo esempio su mille.
Vergogna
senza la quale manca la capacità analitica, l'onestà intellettuale
e la giusta dose di umiltà che ci permetterebbe di scusarci con il
prossimo.
Siamo
dei codardi disonesti che, anche grazie alla virtualità, riusciamo a
imbellettarci celando, così, una misera esistenza.
Vite
fatte di solitudine e pochezza intellettiva, per non parlare della
pressoché assente intelligenza emotiva. Non ho le carte in regola
per scrivere quanto dobbiamo addebitare all'uso, spesso compulsivo,
dei social, questo è un compito che spetta a sociologi e psicologi,
ma è certo che lo stare nascosti dietro a un “paravento” non fa
di noi degli impavidi.
Quasi
come se fossimo formiche ubriache capitate nella centrifuga di una
lavatrice, viviamo così questo tempo veloce e incomprensibile.
“Non
ho capito dove sei in vacanza perché sul tuo profilo FB hai scritto
niente e poi perché non rispondi ai miei commenti?”
Questa,
per sommi capi, la frase che un mio amico ha proferito in una
telefonata.
Voglio
precisare che prima di pubblicare queste righe ho fatto a lui il
discorso sulla vergogna, preciso, inoltre, che mi è stato concesso
il permesso di citare la sua frase.
Ma
quel che mi preme chiarire è che la persona in questione è uomo
innanzitutto molto intelligente, colto, con una posizione sociale
invidiabile e, fattore non trascurabile, assai affascinante.
Fatte
le debite precisazioni e avendo indotto alla “vergogna” il mio
interlocutore per le oscenità da lui proferite, ho chiarito alcune,
per me urticanti, motivazioni sul mio distacco progressivo dai non
luoghi… dopo la più importante: la mortificazione di tutti i miei
sensi.
Il
disamore, se di amore precedente si può parlare, è avvenuto
osservando quanto privato viene sbattuto allegramente in piazza.
Messaggi
che, per rispetto verso l'altro, dovrebbero essere recapitati
direttamente al destinatario dal mittente in persona vengono, invece,
elargiti al “pubblico” il quale, ignaro del vero senso di quella
pochezza e incapace di “tacere”, risponde come se fosse un coro
di sorci squittenti, topi che si nutrono d'immondizia senza valore.
Ho
passato un po' di tempo a curiosare alcuni profili, non solo quelli
dei miei contatti, prima di provare un senso di pura e profonda
tristezza.
Ho
spiato, soprattutto, i commenti a frasi e altro.
Spesso
accozzaglie di insensate frasi farcite di superlativi
“assolutissssimi” e lodi sdolcinate con evidenti tentativi di
emergere da quell'anonimato che, in questo oggi, risulta tanto
fastidioso.
Nel
mio attacco di voyeurismo statistico ho riscontrato, inoltre, un uso
smodato di quelle faccine (emoticon).
Bamboccetti
che spruzzano cuori e aMMore a volontà.
Le
animazioni inondando le righe, piccoli spazi messi a disposizione dal
domatore occulto, con quella felicità in plastica tanto in voga e
che, calorosamente, ci ordinano di mostrare.
Il
destinatario non ne esce meglio, anzi, per molti versi assume le
sembianze di un penoso vanesio che pare ricercare, nei plausi della
platea di spilli impazziti, la soluzione definitiva al suo, palese,
complesso di inferiorità.
Se
poi il “ricercatore o ricevitore” di tali attenzioni assume, come
uso o tattica, il silenzio, ossia non degna la platea neppure di un
misero, ma tanto agognato, “mi piace”, ecco che allora riesce
nell'intento di indurre tacitamente il poveretto/a a credere nella
sua preminenza.
In
questo mare di strazianti tentativi di emersione vi sono, è onesto
scriverlo, profili molto ben gestiti.
Pagine
personali delicate infarcite di buona musica, notizie importanti e
intelligenti disquisizioni.
Solitamente
sono profili adoperati con scopo divulgativo, ma anche con quella
giusta e garbata dose di frivolezza.
Sono
tuttavia il numero minore.
Se
riuscissimo ancora a vergognarci sparirebbe la stragrande
maggioranza di questa classe politica.
Riusciremmo
a fruire di buone letture giornalistiche, evitandoci fastidiose
gimcane fra articoli di prezzolati scribacchini.
Vi
sarebbe una moria di punti esclamativi e un pensiero rivolto ai
defunti superlativi assoluti.
Se
ci riappropriassimo del sentimento succitato tornerebbero,
timidamente e discretamente, congiuntivo e condizionale, sparirebbe
Io, Io, Io e gli scarrafoni sarebbero belli a mamma loro e, per
libera scelta, a pochi altri.
Insomma:
il rossore del volto ci farebbe apparire più simili a degli umani
lasciando ai sorci il loro squittire.
Ma
che muoia questa società fatta anche da me!
domenica 14 agosto 2016
mercoledì 3 agosto 2016
lunedì 25 luglio 2016
Detto talmudico
“Insegna alla tua lingua a dire non so perché non ti
tocchi di esser preso per mentitore.”
Detto talmudico
martedì 19 luglio 2016
Intimità
Può esser di piccole dimensioni che, graziosamente, raccoglie segni e sussurri, ma anche di grandi proporzioni che sorregge le mie urla e i miei gesti inconsiderati, graffianti
Bianca, grigia, écru.
Sottile come velina o corposa come carta di riso…
Sia essa in qualsivoglia modo e colore, io al fascino della carta non sono mai riuscita a resistere.
Stamani mi sono resa conto di non possedere nulla di più intimo e segreto del mio blocco schizzi.
Nessuno ha mai sbirciato lì, a nessuno ho mai concesso il permesso di farlo né mai lo concederò.
I miei blocchi schizzo, imbottiti di appunti scritti e bozzetti, mi conoscono a fondo e sopportano stoicamente ogni mio mutamento.
Loro saranno i primi che brucerò…
lunedì 27 giugno 2016
La coerenza di Primo
Mi
capita spesso, ne devo aver già fatto cenno in questo non luogo, che
quando qualcuno, parlando di sé stesso, puntualizza ripetutamente
una o più peculiarità proprie io rizzo le antennine.
Più
son nobili, o comunemente ritenute tali, le caratteristiche che il
mio interlocutore si attribuisce e più a fondo scava la mia innata,
e talvolta fastidiosa, osservazione.
La
coerenza è una
delle proprietà ritenuta, dalla stragrande maggioranza dell'umanità,
eccelsa.
Per
quel che mi riguarda non la ritengo poi così regale perché
spesso, dietro a questo termine, si cela una mera ottusità;
sono
rare le persone a cui riconosco coerenza.
Talvolta
dico
che,
essendo
pochi gli argomenti
in cui mi riconosco una granitica
coerenza e
amando il
coraggio del cambiamento, sono
coerentemente incoerente.
Proprio
sulla coerenza ho visto cadere eserciti di umanità
tutta d'un pezzo.
Nauseabondi
tentativi di mostrare al mondo ciò che si vorrebbe essere
spacciandolo per ciò che si è veramente.
Qualche
tempo fa, poco tempo fa, ho
rivisto
un uomo al quale sono stata legata sentimentalmente per alcuni anni.
Non
farò, per ovvie ragioni legate al privato, il suo vero nome. Primo;
lo chiamerò così in onore di uno degli autori da lui più amati.
Primo
è sempre stato un uomo particolarmente affascinante, direi bello.
Molto
alto, occhi azzurro mare, la
barba argentata come la
sua folta, e decorosamente scompigliata, capigliatura.
I
miei ricordi con lui sono molteplici, ma ciò che più spicca è il
suo, molto torinese, garbato modo di fare.
Un
comunista modello Italia anni '80, vecchio PCI
per intenderci. Un uomo che ha fatto parecchia
strada nella sua vita lavorativa, uno che si è sempre dato da fare.
Una
trentina di anni fa ha avviato un'attività artigianale
che si
è,
grazie alla sua capacità umana e imprenditoriale, espansa.
La
mentalità duttile di
Primo,
pronta al cambiamento, ha fatto sì che, con l'avvento della crisi,
mutasse in buona parte l'origine della ditta e si ampliasse
nonostante le molte difficoltà dei mercati.
Ora
è una bella azienda solida con alcuni dipendenti
Primo,
nel nostro incontro, mi raccontava
di alcune vicissitudini legate alla sua salute che lo hanno indotto a
decidere di smettere di lavorare.
L'agiatezza
raggiunta negli anni di attività e la malattia, però, non lo hanno
reso insensibile, anzi…
Sono
stata io a chiedergli
cosa
fosse stato dell'azienda,
Primo,
conoscendolo bene, non ne avrebbe fatto cenno; egli è un signore, un
vero Signore.
La
ditta tutta, furgone nuovo compreso, è stata donata.
Mi
spiega che, dapprima, aveva proposto a tutti i dipendenti di
proseguire senza di lui, ma solo uno di loro si è sentito di
continuare.
L'ex
dipendente,
oltre al non licenziamento dei colleghi, avrebbe
dovuto,
entro
un certo tempo, assumere personale.
Altra,
e ultima, clausola è che l'azienda
non potrà
essere ceduta in cambio di denaro, ma donata a
sua volta.
Il
tutto condito da una serie di eccezioni, ovviamente, legate alla
possibilità o impossibilità del mercato che non starò a elencare.
Be',
la notizia bella è che l'attuale amministratore ha già assunto, a
tempo indeterminato, un dipendente.
A
ben pensarci, Primo, non ha mai parlato di coerenza… ha sempre,
però, agito con quel garbato silenzio che riconosco a un torinese
D.O.C.
Mi
pongo una domanda: sono una donna fortunata perché ho
incontrato
qualche vero Uomo o in gamba perché evito i
blagueur?
Mah...
lunedì 20 giugno 2016
La forza travolgente dell’esperienza.
La forza travolgente dell’esperienza.
Il mondo
ha in sé voci che, se ascoltate, possono indicarci il senso della
nostra vita.
Quando,
anche per un istante, riusciamo a liberarci dal rumore dei perché,
otteniamo lo spazio in cui collocare la nostra comprensione.
Anni fa
trasmettevano una serie di film per la tv che descriveva il non
facile insediamento di una colonia umana su un nuovo pianeta. Quel
mondo era già abitato da esseri con caratteristiche molto
particolari i quali vivevano nel sottosuolo, "il popolo delle
ombre". A me parve subito che quegli abitatori sotterranei si
richiamassero, per molti aspetti, agli aborigeni, e che l'intera
vicenda potesse evocare l'insediamento dei britannici nel territorio
australiano. In ogni caso, indipendentemente dalle intenzioni
consapevoli degli sceneggiatori, questa era stata la sensazione che
ne avevo ricevuto.
In un
episodio della serie, un umano incontrava una donna anch'essa di
origine terrestre che, però, era stata adottata fin da piccola dal
popolo sotterraneo e ne aveva assimilato usi, costumi e capacità. Il
dialogo si svolgeva, all'incirca, come segue.
Donna
del Popolo delle Ombre: - rivolgendosi all'uomo - «Ma perché
continui a parlare tanto!?»
Uomo
della Terra: «Ti sto solo facendo delle domande. È il modo col
quale noi terrestri cerchiamo di capire le cose che ancora non
comprendiamo!»
Donna:
«Siete strani voi terrestri! Noi per ottenere la stessa cosa ce ne
stiamo in silenzio, ad ascoltare.»
Questa
risposta mi ha sempre intrigato e divertito. Parla della facoltà di
ascoltare, della qualità dell'essere recettivi. Sono sempre più
convinto di quanto sia necessario far posto dentro di noi, per
consentirci nuove acquisizioni. Fare spazio, insomma, affinché le
cose abbiano modo di raggiungerci.
La
ricettività, in fondo, ha un preciso rapporto con la capacità,
parola, quest’ultima, che ci rimanda alla possibilità di fare, ma
anche all’attitudine a contenere. In altre parole, un vaso già
colmo non serve a nulla.
Questo
lavoro parte dal presupposto che esistano modi di conoscere più ampi
rispetto ai processi mentali di tipo lineare, guidati unicamente
dalla logica causale.
L'intento
è di allargare lo sguardo lì dove di solito siamo abituati a
restringerlo e limitarlo.
Il metodo
è quello che si serve del pensiero analogico il quale, come vedremo,
ci permette di risalire dal particolare alla totalità e di
attribuire connessioni significative fra cose od eventi che,
diversamente, rimarrebbero oscuri per continuare ad apparirci
insignificanti.
La
forza travolgente dell'esperienza
Forse non
è un caso che le prime righe di questo scritto risalgano al periodo
in cui stavo predisponendo il mio primo studio di psicoterapia. Di lì
a poco dovetti affrontare la perdita di mio padre ed io ricevetti in
eredità l’appartamento nel quale andai ad abitare.
Per me
quel luogo divenne, come ogni autentica eredità, impasto d’amore e
dolore.
Entrare,
prendere possesso, vivere in quella casa, furono azioni ben diverse
da ciò che in passato avevo già sperimentato.
Mi
trovavo improvvisamente a contatto con tutti quei mobili ed oggetti,
che rimandavano al ramo paterno delle mie origini. Tutta la memoria
della famiglia di mio padre, delle origini di mio padre e delle mie
stesse era racchiusa fra quelle mura. La storia della mia famiglia
era nelle mie mani. Ma, contemporaneamente, dovevo ricavare in quel
luogo i miei spazi, fare della casa delle mie origini la "mia"
casa. Dovevo decidere cosa tenere e cosa scartare e, come una
chiocciola, da dentro, costruirmi la mia conchiglia, il mio guscio.
Questa,
in breve, è la storia della prima fase, quando, come dicevo,
tracciai solo le basi di questo lavoro. Sono poi trascorsi anni in
cui ho continuato a svolgere sia l’attività di psicologo e
psicoterapeuta sia quella di artista o, come preferivo definirla un
tempo (così come mi era stato trasmesso da un professore all'epoca
degli studi d'arte), di ricercatore visivo. Ma proprio quando i
quadri parevano sul punto di liberarsi del carico nero dei miei lutti
e le mie installazioni*(1), sempre più esplicitamente, descrivevano
un anelito alla spiritualità, mi trovai a precipitare in un baratro
così scuro che non me ne avvidi se non dopo molto tempo e così
profondo da farmi scambiare per volo ciò che risultò essere,
invece, caduta.
Quando
scegliamo di rapportarci all'interiorità e alla profondità dobbiamo
fare attenzione che essa non si confonda con la solitudine
annichilente dell'isolamento, così come affacciandoci sull'orlo
dell'abisso è necessario rimanere saldi e non farci trascinare dalla
vertigine. Spesso però, fortunatamente, la vita ci porta con le
malattie anche le cure, ovvero, coi problemi anche le soluzioni.
In quel
difficile periodo la mia abitazione mi appariva sempre meno curata.
Senza rendermene pienamente conto avevo omesso, giorno per giorno, di
dedicarle quelle attenzioni che sono invece dovute al luogo in cui
viviamo. In una stanza erano accumulati tutti i miei quadri e,
lentamente, la polvere iniziava a ricoprirli. Tolte le tende dalla
finestra, infine, le persiane erano rimaste permanentemente chiuse,
ponendo definitivamente quel luogo nell'oscurità e nell'abbandono.
Ma
proprio in coincidenza con una delle estati più torride che a
memoria d'uomo si fosse registrata in Italia, si verificò un
cambiamento, improvviso e inatteso.In quel momento presi finalmente
atto di dover fare qualcosa per la mia casa. Fui altrettanto certo,
da subito, che quel "qualcosa" era essenziale alla mia
persona e per la mia vita.
Procuratomi
il materiale occorrente, mi misi a scrostare le pareti della cucina.
Ripresi, così, il duro lavoro cominciato col mio insediamento in
quell'appartamento. Allora non avevo ritenuto necessario imbiancare
la cucina. Ora non solo intendevo dipingerla ma iniziavo addirittura
con lo scrostarne i muri.
Il caldo
opprimente e il lavoro, già di per sé piuttosto faticoso, presto mi
portarono in una direzione fino ad allora quasi ignota, in cui il
presente era l'unico tempo esistente e mi apriva a dimensioni
immaginative straordinarie, come fossi precipitato in un diverso
stato di coscienza. Tra il caldo terribile, il sudore e la fatica, il
dolore della mia anima continuava a persistere ma assumendo via via
un senso diverso, quasi si fosse trattato di un percorso iniziatico.
Mi
scoprii, così, a tessere analogie con l'idea che mi ero fatto,
allora senza alcuna conoscenza diretta, della capanna sudatoria *(2)
in uso presso la tradizione dei nativi americani e di simili
esperienze d'altri popoli lontani.
Il dolore
dell'anima non cessava ma, con il caldo terribile, la fatica e il
sudore, pareva potermi parlare, dirmi cose che, forse, non avevo mai
avuto il coraggio di ascoltare. Il raschiare della spatola contro il
muro emetteva un suono stridulo, e presto mi parve trasformarsi come
in una nenia od un'antica canzone. Rasch, rasch, rasch, un preghiera
senza tempo si diceva da sé e più o meno faceva così:
Raschiando
le pareti della mia cucina, raschiando strati di pittura e intonaco,
raschiando strati di storia e memorie nascoste, raschiando ciò che
va tolto per scoprire cosa rimane, raschiando senza nulla cercare,
raschiando sino ad arrivare al cuore, fino al di là del cuore, fino
alle radici più profonde, nel luogo dove si prepara il cibo, nel
luogo in cui si consuma il cibo, nel luogo ove si trasforma ciò che
sarà trasformato, raschiando via le idee ed i pensieri inutili,
raschiando via le recriminazioni, raschiando via le paure e gli
impedimenti, raschiando tutto ciò che non serve, per lasciare solo
il necessario, raschiando con forza e fatica, grondando sudore,
raschiando fino ai mattoni, fino al centro della terra, sino a vedere
le stelle, fino al mattino di un nuovo giorno, raschiando per poi
ricostruire, vivere e continuare, tutto questo avviene ed è già,
raschiando, raschiando i muri della mia cucina.
Furono
mesi di grande fatica. Alcuni giorni maledicevo il momento in cui
avevo iniziato quel lavoro e, in particolare, di non aver chiesto
aiuto ad alcuno. Ma in fondo al mio cuore sapevo di essere nel mezzo
di un percorso che a nessuno avrei potuto demandare. Un percorso che
in quel momento connetteva in un'unica, inscindibile totalità, il
mio corpo, la mia casa, la mia anima.
Col
finire dell'estate il lavoro non risultava ancora del tutto compiuto.
Dovetti liberarmi dei progetti inattuabili e orientarmi su ciò che
era realizzabile con le mie forze e i mezzi che avevo a disposizione
in quel tempo. Ma questa non poteva essere un'operazione di mera
rinuncia. Era necessario che le soluzioni adottate nel risistemare la
cucina fossero ben altro che un semplice ripiego: dovevano generare
piacere e soddisfazione. Dovevano nascere da un processo creativo
spontaneo, l'unico in grado di produrre un esito autentico. (...)
continua
Fonte:
https://www.facebook.com/notes/roberto-pinetti-psicologo-psicoterapeuta/la-forza-travolgente-dellesperienza-da-casa-corpo-anima/1029923020433733
martedì 7 giugno 2016
Fantasmi nel letto
La luce aspetta
a labbra stette la
fine della notte.
Il ragno divide i
suoi pensieri con i miei
arrampicandosi sul
muro.
Giù in strada
il camion delle
pulizie
elimina le impronte
di una città
scalza.
La schiena urla la
mia accidia
e il cartellone
pubblicitario
mi danza addosso
tutta la sua
illusione.
Mi alzo dal letto.
Non riesco a dormire
ogni volta
che i fantasmi
invadono il letto
con occhiali neri
facendomi sentire un
misantropo
appartato
rinchiuso
dentro la nostalgia
delle mie mancanze.
Accendo una
sigaretta
e scrivo dopo aver
letto
Majakovskij
e ascoltato
Nick Drake.
Il cuore è il
motore
l'anima la forza
motrice.
venerdì 3 giugno 2016
Caro cumulo di fogli solcati da una HB...
Posso provare a
descriverti il suo aspetto.
Egli è piuttosto
alto, né magro né grasso, non possiede un corpo costruito, ha
comunque un bel fisico.
È un uomo a cui non
riesco a dare un'età, ma so, perché lo percepisco, che ha qualche
anno più di me.
Indossa sempre una
giacca in velluto a coste. Forse nera, forse blu marine… non saprei
dire con certezza.
Il suo incedere è
rasserenante, il passo deciso, ma non veloce.
Ha belle mani; dita
affusolate un po' ossute e unghie curate senza eccessi.
Profuma di buono, la
sua pelle emana un gradevole odore naturale e non usa sostanze
artificiali; di questo sono sicura.
So di udire la sua
voce lievemente roca, potrei riconoscerla.
Alcune volte fuma il
sigaro, io non lo vedo ma sento l'aroma; mi piace, è inebriante.
Più d'una volta
dalla tasca della sua giacca è fuoriuscito il bordo di un libro;
non sono mai riuscita a leggerne i titoli, di uno ricordo il bordo
rosso.
Appare sempre come
se prima vi fosse altro, dell'altro.
Mi fido di lui, mi
piace la sua dignità non sento eccessi di volgare orgoglio.
Qualche volta
avverto il suo riso, mi sento bene con
lui.
Lo percepisco
protettivo, mi scalda dentro.
In
sua compagnia son stata in molti
luoghi; ricordo una passeggiata nei viali del Bois de Boulogne a
Parigi, Roma e poi le camminate nelle vie di Torino o al quartiere
ebraico di Venezia.
Mi sento
soddisfatta, appagata.
Mi piace ascoltarlo,
sento ciò che dice, non lo interrompo per timore di perdere il senso
delle sue parole.
Non conosco il suo
nome.
La notte scorsa ero
con lui in una strada di una città che non sono riuscita a
riconoscere, ci stavamo recando a cena mentre chiacchieravamo.
Il benessere che
avvertivo era pieno e sgombro da un qualsivoglia presagio, provavo
qualcosa simile alla felicità.
La fiducia nella
sua persona era tangibile, come sempre del resto.
Il ristorante era
situato in una piccola piazza poco illuminata, i lampioni, le case
d'epoca conferivano alla stessa un fascino particolare e molto
romantico.
Decidiamo di
accomodarci fuori dal locale, scegliamo uno dei tavoli imbanditi e so
di aver sentito l'odore del suo sigaro.
Subito dopo stiamo
passeggiando su un molo, è notte ormai fonda.
Alle mie spalle le
luci della città, di fronte una tavola di china nera; il mare.
Vedo una luna
meravigliosa, mi pare quasi che palpiti.
Ecco, siamo al fondo
del molo; guardo sotto... il buio.
Mi sorride, lo
sento, mi carezza il volto, si posiziona dietro di me cingendomi la
vita con le sue braccia.
Sento il calore del
suo corpo, mi volto e cerco di guardarlo; non vedo il suo viso.
Mi sfuggono i suoi
connotati, ciò che osservo è una sorta di scia nera, nera come la
pece.
Mi volto verso
l'acqua.
Lui mi spinge di
sotto… sto affogando, sto morendo e non riesco a chiedere aiuto.
Il dolore che provo,
a causa della fiducia tradita, è lancinante, insopportabile.
Io voglio
svegliarmi, mi sveglio e le mie guance sono bagnate.
Quante e quante
volte ti ho raccontato questi incubi... in fondo non ti ho mai
descritto il suo aspetto così dettagliatamente e poi, comunque, non
devo certo giustificarmi con te che sei il mio diario!
Chicco, in occasione
di una conversazione telefonica, mi ha suggerito, e non è la prima
volta, di dipingere ciò che di questa figura maschile ricordo.
Io non ci sono
riuscita.
Il mio blocco
schizzi è colmo di tentativi che somigliano neppure lontanamente a
lui.
No, non pensare
ch'io abbia timore di addormentarmi… il problema, semmai, è la
grande quantità di croccantini al sesamo e miele che ingurgito per
tacitare l'angoscia.
Altra conseguenza è
il fiume di vocali e consonanti che scarico sulle tue pagine, ma
questo è un mero tentativo di catarsi.
Catarsi, appunto...
Fotografia fonte:
Beni Culturali. it
"Leonardo da Vinci. Studi proporzioni del volto e dell'occhio, con note Biblioteca Reale, Torino"
mercoledì 20 aprile 2016
Confronti
Se
ti senti un intelligente in mezzo a una pletora di
idioti, prima di dire “IO SONO”, valuta la possibilità che il tuo
interlocutore abbia parametri di confronto diversi dai tuoi…
idioti, prima di dire “IO SONO”, valuta la possibilità che il tuo
interlocutore abbia parametri di confronto diversi dai tuoi…
potresti essere un idiota fra molti intelligenti e non saperlo.
lunedì 11 aprile 2016
La tua morte è stata celebrata
Sono già stata al
tuo funerale; camminavi davanti a me...
Ti devo gratitudine,
la tua morte, solo apparentemente celata da una triste vita: la tua,
mi ha donato la consapevolezza di protendere verso la luce del sole…
ti ringrazio, ho provato un sentimento: la pena.
Diego Rodríguez de Silva y Velázquez, Ritratto del nano Sebastian de Morra
Pablo Picasso, Il nano, Mougins
Immagini da:
http://espresso.repubblica.it/visioni/lifestyle/2008/10/10/galleria/picasso-e-i-maestri-sfida-tra-geni-nbsp-1.98600#8
http://espresso.repubblica.it/visioni/lifestyle/2008/10/10/galleria/picasso-e-i-maestri-sfida-tra-geni-nbsp-1.98600#8
Iscriviti a:
Post (Atom)